venerdì 29 agosto 2014

di maestri e insegnanti

Stavo leggendo il blog di Mel e le sue vicissitudini con le supplenti della sua infanzia, quando mi sono tornate in mente la maestra Lucilla e la maestra Francesca.

La prima era la mia maestra di "tutto tranne lingue" alle elementari (tutti i cinque anni), la seconda la maestra di inglese dalla terza alla quinta elementare.
Premettendo che ho fatto una scuola a metodo Montessori alle elementari, ho dei bellissimi ricordi di entrambe.

La prima era un vulcano di idee e di attività.
Sulla trentina, single a vita, amante del Messico, con un grosso orecchino piumato a metà dell'orecchio destro. Mi ha insegnato a scrivere e a contare. Mi ha insegnato la grammatica e la storia.
Ho ancora il sussidiario che usavamo in classe e quasi in ogni pagina c'è un ticket colorato che lei assegnava per ricordarci di vedere altre fotocopie o altre fonti che man mano ci forniva.
Mi ha fatto amare la storia e l'evoluzione della civiltà come neanche Philippe Daverio potrebbe.
Ero malata di egittologia. Sapevo tutto delle mummie e dei riti funebri dell'Antico Egitto.
Ci insegnava anche scienze, ma solo le gite e le visite che facevamo, riuscivano a farmi apprezzare la materia.
E la grammatica.
Credo di essere una delle poche persone rimaste che sa fare l'analisi grammaticale-logica-del periodo a occhi chiusi.
Il metodo Montessori ha aiutato, ma la sua grinta e la sua dedizione hanno fatto il 90% del lavoro.
In quinta, alle soglie dell'esame di fine anno, ha regalato a ciascuno un libercolo. Il mio era un libro di poesie con un suo messaggio sulla prima pagina: "Per amare il mondo, devi guardarlo ogni giorno come se uscissi per la prima volta di casa".
Che avesse già percepito il mio tormento futuro?
Alcuni anni fa, durante la pausa di uno spettacolo teatrale, sentii le mie vicine di posto parlare di una maestra che corrispondeva alla sua descrizione. Sembrava fosse malata.
A maggio ho avuto la conferma che è mancata per un tumore qualche anno fa.

La maestra Francesca era di tutt'altra pasta. Dolce e posata, era giovane e inesperta quando è arrivata nella nostra classe ma con la sua flemma e gentilezza ci ha conquistati.
Studiavamo inglese già dalla prima elementare ma, se prima di lei ci limitavamo a imparare vocaboli e far disegni con didascalie in inglese, con lei abbiamo iniziato a masticare la lingua.
E quindi giù di grammatica e di dialoghi in inglese. E canzoni!
Ogni giorno, o quasi, tornavo a casa con una canzone da ascoltare e completare il testo.
Se ho un buon orecchio per la lingua, devo ringraziare la maestra Francesca.
Sempre a maggio di quest'anno però la doccia fredda.
Aveva 42 anni, questo dicembre, e moriva in ospedale di anoressia.
Ci sono rimasta malissimo.


Eppure seppur con un pò di tristezza, ricordo con affetto queste due donne.



Seya

lunedì 25 agosto 2014

L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

L'ultimo romanzo di Murakami è, come tutti i suoi libri, una storia a più strati.
Ci si può limitare a leggerne la trama e ad assaporare il banale cammino di rinascita di un protagonista anonimo che ha subito una forte perdita, i suoi amici del cuore, e che anni dopo fa luce sulla vicenda grazie alla donna che ama.
Si può arrivare al primo strato e capire che il percorso del protagonista è una rinascita che prevede l'affrontare tutti i grandi temi tragici della vita: la sensazione di abbandono, la depressione, la solitudine, la paura del rifiuto, l'incapacità di capire i motivi più profondi delle proprie e delle altrui azioni.
Si può giungere al secondo livello, quello musicale, e riconoscere che Listz e la raccolta de "Gli anni di Pellegrinaggio" a partire dal paese del male fino alle vacanze in Italia, sono il liet motive di un personaggio che, come tutti i personaggi di Murakami, non capisce nulla di musica ma vive dentro di sé le emozioni di alcuni pezzi poco noti ma molto profondi.
E poi c'è l'ultimo strato, o almeno quello a cui sono arrivata io, anche con l'aiuto di critici ben più colti e completi di me: i colori.
Tazaki si autodefinisce l'Incolore. il motivo più immediato è la mancanza di un ideogramma "colore" nel proprio nome, mentre tutti i suoi amici ne hanno uno; il motivo più profondo è che in lui, a differenza che nei suoi amici, non ci sono caratteristiche preponderanti. E' un ragazzzo normale, talmente normale da essere anonimo.
Poi da grande la sua anonimità diventa universalità.
Chiunque può essere Tazaki.
E il percorso di rinascita che intraprende nel libro è come una passeggiata nell'arcobaleno. Dal nero della disperazione, al grigio delle ombre di Haida e dei suoi sogni agitati, al rosso della passione per Sara e la presa di coscenza, il verde della sincerità di un amico che, ad anni di distanza, ammette gli errori del passato e le nuove consapevolezze del presente, al giallo della nuova felicità.
Ma non si raggiunge il bianco.
Perchè in Giappone, il bianco, e quindi Shiro, sono sinonimo di morte.

Buona lettura!




Seya

martedì 19 agosto 2014

Dallas Buyers Club

Dallas buyers Club è uno di quei film che nelle afose serate di agosto, attira una folla variegata e variopinta, tenendola seduta sulle scomodissime sedie di plastica per due ore.
In realtà in dirittura d'arrivo, la palpebra cala e i piedi chiedono pietà, ma voglio credere sia a causa del caldo e dell'orario.

Inizia velocemente, rallenta nel frattempo per far spiegare le dinamiche burocratiche con cui litiga il protagonista, punta un faro silenzioso sulle vicende personali dell'uomo e conclude in pochi minuti.
Il format della storia è già stata vista, quello che mi ha reso particolarmente sorpresa è stata l'interpretazione di Matthew McConaughey.
Abituata come sono a vederlo come il bello del film e più raramente come attore serio e completo (ricordiamo per dovere di cronaca il bellissimo Il Momento Di Uccidere), qui ha fatto tutt'altro.
Magro come un grissino e irriconoscibile, ha dato una prova di grande maestria recitativa, calandosi nei panni di un rozzo ma intelligente texano malato di AIDS che rifiuta la cura a base di AZT e propone, supportato da un bravo e serio medico, una cura più naturale e rinforzativa.
La storia affonda le radici nelle vicende di una persona relamente esistita e che con i suoi sforzi, e quelli di anche qualche altro malato, ha permesso di rivedere la diagnosi sui malati di HIV.

Non parlo oltre della trama, anzi, invito tutti a vedere il film, anche solo perchè abbiamo nella stessa pellicola due Oscar, Matthew e Jared Leto, quest'ultimo grande amore della mia vita (almeno a livello platonico) fin da Alexander.



Seya

lunedì 11 agosto 2014

positività

Sono in ufficio da sola con niente da fare. Nell'altro reparto regna il caos. Ho aperto la porta per dichiararmi disponibile per qualunque tipo di collaborazione e aiuto ma ho fatto dietrofront lanciando un debole messaggio "se avete bisogno, io ci sono".
Sono qui, isolata nel magazzino, a leggere e fare piccoli lavori secondari.
E a pensare.

Tanti pensieri, alcuni tristi, alcuni già più positivi.

Ho due lavori (cioè uno stage e un lavoro a chiamata..molto frequente!) e la cosa mi fa piacere. Guadagno qualcosa, imparo e mi confronto.
Le soddisfazioni però sono proprio poche.
Appena ho idea di essere maggiormente considerata, subito ricado nel vuoto.
Qui in azienda (lo stage), mi sento invisibile. Sono quel fantasma che nessuno vede o sente ma che esegue tutti i lavori lunghi e di routine. E le cui iniziative personali sono proprio poco valutate.
Ho provato, timidamente - meglio sottolinearlo -, a suggerire dei diversi modi per gestire questo o quello ma non sono stata minimamente valutata.
Settimana scorsa sono tornata a casa in lacrime perchè la frustrazione è un boccone pesante da digerire.
Il lavoro in aeroporto mi soddisfa maggiormente, per alcune cose, e mi permette di fare una cosa che durante la settimana proprio non faccio: parlare.
Ho conosciuto persone meravigliose e sorprendenti, di fronte alle quali spesso mi sento inadeguata. Eppure mi diverto.
Però a livello lavorativo non mi sembra di progredire. Per carità, non è un lavoro che richieda chissà quali doti, al di là di quelle linguistiche, però davvero è pesante (anche fisicamente) restare 6-8 ore nella stessa postazione (e posizione!).

Lavoro 9 giorni su 7 e nessuno sembra notarlo.
Non un complimento, non un segno di comprensione se mi nego per un'uscita o torno a casa prima.
Inevitabile dal momento che sono circondata da persone che studiano e non hanno mai lavorato, però tesori miei!
Senza contare che nell'arco di 3 giorni ho visto e interagito con due vecchie conoscenze che, con la loro sola presenza, hanno la capacità di distruggere tutte le mie fragili convinzioni.
Se le ho allontanate da me, ci sarà un motivo, no?

E l'unica persona con cui vorrei parlare, uscire e confrontarmi è in vacanza e non me la sento di disturbarla.

Soprattutto vorrei che il mondo intero smettesse di preoccuparsi per la mia mancanza di relazioni sentimentali. L'altra sera stavo per replicare in maniera molto scontese a Medico per la sua domanda "E tu nessuna novità di cuore?". Come se io dovessi per forza essere la metà di una coppia.
Io non mi basto, questo si sa, però non ho nè il carattere nè l'interesse (nè il tempo) di portare avanti la ricerca di una metà.
Devo ancora imparare a stare bene con me stessa! Figuriamoci quando mai riuscirò a stare bene con gli altri.

Intanto leggo e studio.
Le uniche cose che mi danno sicurezza e creano in me la percezione di avere uno spessore.
E questi sono i miei veri pensieri positivi.



seya


martedì 5 agosto 2014

il Capo

La domanda del giorno è: perchè il mio Capo, che dovrebbe essere in ferie, si presenta in ufficio e rompe l'anima?



Seya