lunedì 25 agosto 2014

L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

L'ultimo romanzo di Murakami è, come tutti i suoi libri, una storia a più strati.
Ci si può limitare a leggerne la trama e ad assaporare il banale cammino di rinascita di un protagonista anonimo che ha subito una forte perdita, i suoi amici del cuore, e che anni dopo fa luce sulla vicenda grazie alla donna che ama.
Si può arrivare al primo strato e capire che il percorso del protagonista è una rinascita che prevede l'affrontare tutti i grandi temi tragici della vita: la sensazione di abbandono, la depressione, la solitudine, la paura del rifiuto, l'incapacità di capire i motivi più profondi delle proprie e delle altrui azioni.
Si può giungere al secondo livello, quello musicale, e riconoscere che Listz e la raccolta de "Gli anni di Pellegrinaggio" a partire dal paese del male fino alle vacanze in Italia, sono il liet motive di un personaggio che, come tutti i personaggi di Murakami, non capisce nulla di musica ma vive dentro di sé le emozioni di alcuni pezzi poco noti ma molto profondi.
E poi c'è l'ultimo strato, o almeno quello a cui sono arrivata io, anche con l'aiuto di critici ben più colti e completi di me: i colori.
Tazaki si autodefinisce l'Incolore. il motivo più immediato è la mancanza di un ideogramma "colore" nel proprio nome, mentre tutti i suoi amici ne hanno uno; il motivo più profondo è che in lui, a differenza che nei suoi amici, non ci sono caratteristiche preponderanti. E' un ragazzzo normale, talmente normale da essere anonimo.
Poi da grande la sua anonimità diventa universalità.
Chiunque può essere Tazaki.
E il percorso di rinascita che intraprende nel libro è come una passeggiata nell'arcobaleno. Dal nero della disperazione, al grigio delle ombre di Haida e dei suoi sogni agitati, al rosso della passione per Sara e la presa di coscenza, il verde della sincerità di un amico che, ad anni di distanza, ammette gli errori del passato e le nuove consapevolezze del presente, al giallo della nuova felicità.
Ma non si raggiunge il bianco.
Perchè in Giappone, il bianco, e quindi Shiro, sono sinonimo di morte.

Buona lettura!




Seya

2 commenti:

Melchisedec ha detto...

Mi piace questa "storia" dei colori contenuti negli ideogrammi. Essere "incolore" è uno dei miei timori nella relazione sociale, ma è un timore soggettivo. E in questa sfera rimane. Incolore come sinonimo di normale è quello di cui tutti forse avremmo bisogno.

seya ha detto...

Ciao! guarda, non ricordo chi l'abbia scritto nè dove, ma ho letto su un editoriale che la ricerca della normalità (e quindi dell'incolorità??XD) è una delle grandi sfide moderne.
Perchè in un periodo in cui grazie a internet, alle app e ai social networks, ognuno sfoggia la straordinarietà della propria vita, cercare di essere una persona normale, sembra un mito.
Per quello che ne capisco io, il libro può anche essere letto con questa accezione.
O forse è una di quelle tante cose che i lettori pensano a posteriori, e di cui l'autore non è consapevole.

Seya