martedì 28 giugno 2011

In inglese è Fair Trade

Da Giornalettismo.com:

Equosolidale: una bufala?”

20 giugno 2011 Foreign Policy mette in dubbio l’efficacia e la reale utilità del Fairtrade: “E’ sopravvalutato”
Il prodotti del commercio equoFairtrade, per dirlo in inglese: tutti lo conosciamo. Parliamo del bollino che alcune organizzazioni internazionali appongono su prodotti che vengono prodotti sulla base di alcuni criteri di rispetto dell’ambiente, dei popoli indigeni; che vengono coltivati senza lavoro minorile, senza sfruttamento della manodopera e senza interventi delle multinazionali della produzione e della distribuzione: insomma, in maniera etica. Importati da selezionati circuiti nazionali, vengono poi venduti nelle botteghe del mondo di vari paesi.
FUNZIONA DAVVERO ?- Sono in molti a voler utilizzare i propri risparmi proprio per aiutare le popolazioni coinvolte nei progetti di economia solidale; té, caffé, alimentazione, abbigliamento equosolidale sono entrati nel nostro lessico quotidiano. Ma il sistema Fairtrade riesce davvero a raggiungere i suoi scopi, ovvero la promozione e lo sviluppo delle popolazioni locali svantaggiate? Se lo chiede Foreign Policy, il magazine di politica internazionale e di approfondimento: rispondendo in maniera articolata, e non del tutto positiva. Ad esempio, nel Nicaragua, dove “moltissime famiglie” sono coinvolte nel sistema del caffè Fairtrade – e il paese dipende per un quarto del suo PIL dall’esportazione dei chicchi – i “prezzi più alti” pretesi dalla produzione equa rischiano addirittura di peggiorare la situazione delle famiglie produttrici.
Alcuni coltivatori Fairtrade portano a casa 55 dollari in meno per raccolto dei loro colleghi non certificati. Di più: mentre il 60,9% del caffè “non-fair” viene prodotto da strutture che sono sotto la soglia della povertà per il Nicaragua, addirittura il 68% dei coltivatori Fairtrade vivono in questa condizione. I risultati sono ancora peggiore per i coltivatori organici, che sprofondano sotto la soglia per il 70%.
Coltivare equosolidale, dunque, è davvero pesante per le famiglie che partecipano.
AIUTARE I POPOLI – Il che, si capisce, è un problema prima di tutto per il sistema equosolidale: se produrre per il mercato fair costa così tanto ai produttori, a qualcuno prima o poi potrebbe venire in mente che, in fondo, non gliel’ha mica ordinato il dottore, abbandonando il circuito solidale per rimettersi in quello non-equo, rovinando così il sogno di un mondo migliore che questo tipo di sviluppo persegue. Come invertire questa tendenza? L’equosolidale è dunque un sistema produttivo da buttare? No, o comunque, non per forza. Ma bisogna utilizzare alcuni accorgimenti: i coltivatori fairtrade hanno bisogno di aiuto. Ecco la situazione in Colombia.
La differenza fra i due paesi è che i coltivatori in Colombia hanno un accesso ben migliore alle strade, alla tecnologia e ad altre infrastrutture che le loro controparti del Nicaragua non hanno, il che rende molto più facile ed economico star dietro alle regole fairtrade.
“C’è ancora bisogno dell’intervento del governo. Le certificazioni non possono risolvere i problemi strutturali che questi paesi sopportano”.
Insomma, un mercato che riesce a far arrivare soldi “puliti” nelle mani dei coltivatori diretti può essere una buona idea: ma da solo, non basta a migliorare le loro condizioni di vita. Serve una strategia coordinata, e servono governi lungimiranti che appoggino questo tipo di sviluppo. Strade, ponti e città equosolidali, non solo caffé e té.
  Tommaso Cardarelli




Replica di Pietro Raitano, Direttore di Altraeconomia:

Gentile Caldarelli,
nel riportare un articolo di una rivista estera, fa sua una confusione piuttosto diffusa. Il commercio equo (“Il commercio equo e solidale – Fairtrade, per dirlo in inglese: tutti lo conosciamo”) non è “il bollino che alcune organizzazioni internazionali appongono su prodotti che vengono prodotti sulla base di alcuni criteri”.
Il commercio equo è un movimento che ha parecchi decenni di vita, è diffuso in tutto il mondo ed è rappresentato da un’organizzazione che si chiama WFTO (World Fair Trade Organization, il cui presidente per altro è l’italiano Rudi Dalvai). Questo movimento è fatto di volontari e non, e consiste nella creazione di progetti specifici nei Paesi del Sud del mondo con “piccoli” produttori, affinché questi non siano schiacciati dal mercato internazionale. Il cuore del commercio equo, nell’accezione del suo organismo internazionale, è quindi la relazione che si instaura tra consumatori e produttori, dove i primi verificano direttamente, attraverso le cosiddette centrali di importazione, il rispetto dei principi stessi del commercio equo.
Esiste poi un’organizzazione internazionale, che si chiama FLO (Fair Trade Labelling Organization) che certifica alcuni prodotti (non produttori) e concede loro il bollino di cui parla (che è quello che illustra nel pezzo), che garantisce che quel prodotto specifico ha rispettato i criteri dell’organizzazione (come avviene per altri marchi, come quello del biologico o l’SA8000).
Sono due approcci molto differenti, come può intuire. Il primo guarda all’intera filiera, il secondo al prodotto.
Nel mondo, e soprattutto in Italia, è maggiormente sviluppato il primo approccio. Non a caso, in Italia esiste l’Assemblea generale del commercio equo (Agices) cui aderiscono tutte le organizzazioni del fair trade. In Italia e per la maggior parte del mondo, è commercio equo il processo, non solo il prodotto.
Non a caso, è questo tipo di approccio che ha portato alla diffusione delle botteghe del commercio equo. I prodotti col marchio Fairtrade invece sono perlopiù diffusi nella grande distribuzione.
Per farle un esempio: anche grandi multinazionali possono avere una linea di prodotti marchiati da Flo. È accaduto ad esempio con un caffè della Nestlé. Questo non fa di Nestlé un’organizzazione di commercio equo, ma dimostra quali sono i limiti di un sistema di “branding” come quello di Flo.
Dall’altra parte, non troverà mai il caffè “equo” di Nestlé nelle botteghe del commercio equo, che al contrario vendono solo prodotti dove ogni attore, sempre e in ogni ambito, rispetta i criteri del fair trade.

Pietro Raitano, direttore di Altreconomia

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